1861-70, la prima "guerra civile" dell'Italia unita.
E se si metesse un cartellone che rappresenti una verità ancora oggi nascosta sui ribelli.
Un invito al nostro Sindaco alla lettura di questo libro. Poi se vuole : pensiero ed azione.
Altro che banditi incivili, incolti, reazionari e codini: i briganti che s'opposero alle truppe savoiarde erano ribelli, contadini esasperati dall'avidità e dallo sfruttamento dei latifondisti, cittadini delusi da un Risorgimento che stava tradendo i suoi propositi e ribaltarsi in propaganda. E quella che venne combattuta tra 1861 e 1870 fu la prima guerra civile italiana. Parola di Giordano Bruno Guerri che celebra con la disorientante onestà di sempre i 150 anni dell'Unità d'Italia pubblicando Il sangue del Sud. Antistoria del Risorgimento e del brigantaggio (Mondadori, pp. 300, € 20,00), una lettura penetrante e lucida delle vicende post-unitarie, vicende fondanti per determinare incomprensioni, ostilità e inimicizie tra le due metà della nazione.
La repressione del "brigantaggio" fu una guerra civile, insabbiata nei libri di scuola non un cenno alla grande alleanza politica tra le classi dominanti del Nord e i latifondisti del Sud, a tutto danno delle classi subalterne». I briganti andrebbero insomma chiamati con un altro nome nei libri di storia: "ribelli". Celebrare a dovere i 150 anni dell'Unità d'Italia potrebbe significare impegnarsi a «rintracciare i documenti mancanti, forse ancora nascosti e dimenticati». Perché senza memoria e senza giustizia un popolo cresce sghembo. E non impara a rispettarsi.
Serve, secondo il maestro Guerri, una «profonda opera di revisione storiografica». Perché s'è trattato d'una guerra civile: e perché a raccontarla, come sempre, è stato il vincitore. Un vincitore che ha imposto la damnatio memoriae sui vinti, riducendo i suoi massacri alla stregua di semplici operazioni di polizia. L'Unità d'Italia per come purtroppo si realizzò non seppe integrare tradizioni, culture e lingue diverse: Guerri sostiene che l'educazione all'italianità dei meridionali sia passata per una contrapposizione rancorosa. "Noi", portatori di giustizia civiltà e legalità, contro "loro", i briganti. A dividere le parti, spiega lo storico senese, «una diversità radicale e radicata, non un'inconciliabilità momentanea. Qualcosa di molto simile a un'estraneità». Che significava la parola "brigante"? Guerri insegna che a introdurla furono i francesi: nel 1829 i nostri linguisti la consideravano ancora un neologismo. Prima ci si serviva di parole come "bandito" o "fuorbandito". Secondo lo storico senese, oggi chiameremmo i briganti "terroristi" oppure, aggiungiamo noi, "guerriglieri". La ribellione di quanti non intendevano accettare l'Italia monarchica venne battezzata, insomma, con un francesismo d'accatto: "brigantaggio". Adottato come sinonimo di "banditismo".
Chi era, allora, il "brigante"? Tante erano le anime dei briganti. Erano ex combattenti, erano lavoratori esausti, erano cittadini che rifiutavano gli anni imposti dalla leva militare obbligatoria di stampo giacobino del nuovo Stato, e c'erano - va detto - anche nostalgici borbonici. Erano a volte disertori, a volte delinquenti, a volte romantici. «Terra, giustizia, onore, tradizione, orgoglio, cacciata dello straniero: erano questi i concetti che invitavano i briganti alla battaglia», insegna Guerri.. Non mancavano le donne: secondo Guerri, si trattava di «antesignane di un femminismo istintivo e rabbioso, ribelli stanche di essere confinate, da sempre, al letto, al focolare e ai figli. Un esercito di nomi e di storie senza volto, un'escrescenza della storia, per decenni considerata ingiustamente marginale». Quanti erano i briganti? Erano parecchi. Guerri riferisce che nel 1861 agivano, dall'Abruzzo in giù, 216 bande. I briganti «immaginiamoli magrissimi, di statura bassa, membra grosse, capelli ruvidi e irti, denti guasti, scuri, mancanti. Mani come pale, grosse di calli, dita non fusellate, corte, unghie nere. I pidocchi fanno parte della vita quotidiana, come l'aria». E Guerri parla dei contadini, non di quelli che sono andati alla macchia. In quel frangente le cose peggiorano con una certa facilità.
Questa guerra venne combattuta con una legge, la Legge Pica dell'agosto 1863, con cui il governo italiano «impose lo stato d'assedio, annullò le garanzie costituzionali, trasferì il potere ai tribunali militari, adottò la norma della fucilazione e dei lavori forzati, organizzò squadre di volontari che agivano senza controllo, chiuse gli occhi su arbitrii, abusi, crimini, massacri». Caddero, secondo le cifre che Guerri considera più attendibili, addirittura attorno alle 100mila persone tra i meridionali, complici i caduti per stenti, prigionia, disperazione, suicidio. Morale della favola? «Oggi, non si può più tacere che quella conquista comportò episodi da sterminio di massa». Non mancarono episodi di violenza cieca e gratuita per mano sabauda, come i massacri di Pontelandolfo e Casalduni, completi di saccheggio e stupri: nascevano per rappresaglia, costituirono un focolaio d'odio. E in entrambi i casi non ci fu nessun processo. E qualcuno voleva non ci fosse nemmeno memoria. Economicamente, il Regno delle Due Sicilie era decisamente più ricco del Regno del Piemonte, almeno per quanto riguardava le riserve auree. Gli abitanti erano gli stessi, nel 1860: nove milioni. Per i primi trent'anni, l'Italia del Sud fu ben sfruttata dal Piemonte, da questo punto di vista. D'altra parte, nelle terre borboniche non esistevano strade, se non in 227 comuni su 1848, e i chilometri di ferrovie erano decisamente pochi. Eppure, ad esempio, «un'infinità di progetti e decreti stabilivano la costruzione di nuove strade; quasi tutti rimasero impigliati nei lacci della burocrazia e nei contrasti tra comuni, signori, preti e quanti, tra vassalli e valvassori, si arrogassero il diritto di avere voce in ogni decisione. Il morbo è arrivato fino a noi».
Guerri ricorda che la base dell'economia meridionale restava l'agricoltura, fondata ancora sul latifondo ma i piemontesi non seppero - o non vollero - risolvere il nodo della questione agraria, determinando così una delle principali cause del brigantaggio: lo scontento abnorme dei contadini. Che sognavano, naturalmente, una equa redistribuzione dei grandi possedimenti terrieri.
Tutti si ricordano la frase di d'Azeglio: «Si è fatta l'Italia, ma non si fanno gli italiani». Guerri puntualizza che diversi tra i principali padri della patria, come Gioberti, Rosmini, e Cavour, pensavano comunque a un Regno d'Italia ben diverso, limitato a Piemonte, Lombardia, Veneto e ducati emiliani. «In pratica quella che oggi viene chiamata Padania», chiosa lo storico, ribadendo che si trattava delle regioni più piemontesi o "piemontesizzabili". L'errore di piemontesizzare il Sud ha determinato un secolo e mezzo di incomprensioni, risentimenti, invidie, vittimismi e gelosie. Probabilmente, peraltro, ha originato un'ondata di emigrazione di straordinaria intensità, prima verso altri continenti, poi verso il settentrione. E negli ultimi dodici anni le cose non sono state così diverse, nonostante si sia fatto tutto il possibile per nasconderlo, complice la propaganda berlusconiana. Settecentomila cittadini del Sud hanno dovuto abbandondare casa, famiglia e tessuto sociale per andare in cerca di fortuna a settentrione. Laddove c'è qualcuno che sembra trattarli come creature antropologicamente differenti: e non da ieri, da sempre, ovvero da quando chiamava "brigantaggio" la loro ribellione.
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