sabato 26 febbraio 2011

DRACULA NON E' MORTO , LAVORA AD EQUITALIA

Una protesta è una protesta e quando i contenuti della dimostrazione sono più che legittimi, ignorare la bontà delle argomentazioni di chi pone in essere un contrattacco giusto all’ingiustizia , solo perché è di un orientamento ideologico non condiviso - ad esempio Casapound - è razzismo nel significato latino del termine . La protesta è giusta e singolare contro Equitalia, davanti alle sedi dei “ nuovi dracula” questa notte CasaPound Italia ha appeso mutande, calzini e altri oggetti "pignorati" lasciati contro i comportamenti scorretti dell'agenzia , definita con striscioni come (IN)EQUITALIA PIGNORA ANCHE QUESTO”. Casapound ci ricorda che : “ Equitalia in appena 5 anni ha raddoppiato gli incassi e nel 2009 circa l’80% delle entrate proviene da piccolissimi contribuenti, persone con le quali Equitalia fa cassa iscrivendo ipoteche sulle loro abitazioni anche per importi inferiori agli 8.000 euro, lasciando così migliaia di famiglie di fronte ad un bivio drammatico: finire nelle mani degli usurai oppure perdere la casa all’asta giudiziaria”. Inoltre Equitalia persiste nel pignorare beni strumentali e crediti alle imprese. Ma come pensa di riscuotere da un'impresa se le tolgono gli strumenti di lavoro? E che fine faranno i lavoratori? A ciò aggiungiamo anche altri due aspetti, grotteschi: Equitalia applica il tasso medio applicato dalle banche sui prestiti (quindi molto più alto) incassando interessi pesantissimi e, inoltre, preferisce vessare chi magari ha poco da pagare ma ha qualche bene da pignorare piuttosto che i veri delinquenti, cioè i veri milionari che però hanno nascosto i propri beni.E per il futuro c’è un altro rischio: è stata concessa la possibilità a Equitalia di effettuare indagini finanziarie, così nel tempo potrebbe vedersi riconosciuto il potere di pignorare direttamente i conti correnti senza preavvertire il contribuente”. Finanziarie, banche, assicurazioni, concessionari, monte dei pegni, un’unica lobby che si avvantaggia della situazione di crisi nella quale versa la povera gente, che in un momento di grave recessione avrebbe bisogno di istituzioni-soccorso e non di cacciatori di teste il cui unico fine è quello di fare cassa contro ogni solidarietà ed eticità. Mi viene in mente La pelle di Malaparte con gli americani che durante la " liberazione" ( o l'occupazione) sfruttavano in maniera vergognosa la fame degli italiani: " (...) nel buio terribile del dolore e dell’umiliazione". E la storia si ripete.

sabato 19 febbraio 2011

L'ATTESA
Oggi apprendiamo dai quotidiani locali che il Prof. De Simone resta altri 7 giorni . Mi chiedo, e sono sicuro faranno altrettanto i cittadini della provincia salernitana, ma come si può gestire la sanità, programmare, pianificare con rinnovi, a 10, a 15 poi 7 giorni date che ricordano più che la proroga di un mandato commissariale , la scadenza di uno yogurth. Comunque.... Non v'è mal che non finisca, se si soffre con pazienza.

giovedì 17 febbraio 2011

ADDIO PROF. DE SIMONE
Oggi 17 febbraio le ultime parole del prof. Francesco De Simone commissario straordinario dell’ASL di Salerno: “ Domani parto, vado via “. Qualcuno dei compagni sindacalisti ieri, ( loro così si chiamano suscitando la mia nostalgica mai sopita “ simpatia” di un tempo che fù ) vedendolo passeggiare nei corridoi di un’ASL occupata dalle OO.SS. disse : “ Un po’ mi dispiace è un uomo che è stato lasciato solo”. Ma andiamo oltre questa considerazione umanitaria ( un’altra agguerritissima compagna non si stancava di ricordare che quell’atteggiamento di De Simone era la recita di una parte ) e vediamo all’ASL salernitana chi si dispiace e chi si compiace. I partiti avversi all’UDC festeggiano a spumante, anche se nella stanza del commissario ho visto varcare la soglia a dirigenti, professionisti, medici, sindacalisti ed a politici dei partiti di opposizione e gli dei sanno chi altro, i quali entravano vestendo la maglia della Roma ed uscivano indossando quella della Lazio ed è che dire. Dei cambi di casacca non c’è da meravigliarsi, a Salerno siamo al punto che se per qualsiasi motivo ti perdi qualche lettura dei quotidiani locali per un paio di giorni, rischi di parlar male dell’amministratore con la persona sbagliata con la quale prima avevi già avuto una convergenza di opinioni negative. Ora invece al commento . “ qualcosina De Simone l’ha fatta , ti senti rimbrottare …ma chi quell’incapace. Ma scusa ma tu non sei amico di ……chi io ma quando mai, che schifo de Simone e de Mita , io stò con Cirielli fino alla morte” e c’è da pensare che al prossimo cambio succeda il contrario. Ma tutto sommato questo si merita la sanità e la politica( che purtroppo è la stessa cosa) che ha narcotizzato l’ideologia e la meritocrazia, per i suoi porci interessi ed ora è diventata un grande supermercato e gli amministratori quelli del : " Venghino signori, venghino prendi 2 e paghi 1”e non si è capito chi è il venditore e chi il compratore. Addio prof. De Simone della sua partenza tutti si compiaceranno e non si aspetti riconoscenza soprattutto da quelli che sono entrati a far la spesa, mi passi il termine, nel suo “supermercato” , questi sono clienti che ritirano lo scontrino e se ne vanno senza ringraziare. Ed ora avanti il prossimo , per le offerte di primavera.

martedì 8 febbraio 2011

IL PIANO OSPEDALIERO DELL'ASL DI SALERNO
Vi lancio un saetta , intesa come un po di filosofia spicciola una nuova rubrichetta all’interno dei SalerniNani rispetto ai vari problemi della Nostra Terra. Ho scritto oramai migliaia di parole sul problema del piano ospedaliero dell’ASL di Salerno ed i quotidiani anche oggi pubblicano un altro atto , e purtroppo non l’ultimo. Il PdL boccia il Piano ospedaliero De Simone; poi la Regione boccia il Piano Ospedaliero della Caropreso, il PD boccia il piano ospedaliero della Provincia-Cirielli, l’UDC boccia l’idea De Luca sul Da Procida, De Luca e Cirielli bocciano i ridimensionamenti di Agropoli, Roccadaspide e Oliveto.
SAETTA ... “ Fa più rumore un albero che cade, che una foresta che cresce “

lunedì 7 febbraio 2011

DE LUCA VS. CIRIELLI . MA AL TAPPETTO CI VANNO I CITTADINI SALERNITANI

Più ci avviciniamo alla elezioni a Salerno – comunali e forse anche nazionali – è più sale il livello dello scontro tra i due catalizzatori della politica salernitana : De Luca vs. Cirielli. Il dissidio è praticamente su tutto : dall’inceneritore, all’aeroporto, dalla sanità alla mensa dei poveri. Ma agli effetti della contesa non si attaglia, purtroppo, l’antico brocardo che vorrebbe “ tra i due litiganti il terzo a godere” ma abbiamo, invece, un terzo a pagare che è il cittadino salernitano. Un episodio sintomatico degli effetti negativi del rancore bipolare lo si è appreso dai quotidiani locali pochi giorni fa ed è quello che riguarda la sanità. Questo il fatto. Diverse settimane fa a via Nizza nella sede dell’ASL i sindacati uniti e compatti come non mai, raggiungono un accordo con l’amministrazione, quello di riconoscere un beneficio economico a circa 8.000 dipendenti per un valore pressappoco di €.40,00 netti – meglio questo che un cacciavite in un occhio -. Tutto legittimo e regolare, ma ad un certo punto, dice sempre la stampa locale , spunta una lettera dell’on. regionale del PdL napoletano tale Marcello Tagliatatela che scrive a Caldoro contro l' accordo per invitarlo a fermare immediatamente l’intesa raggiunta nell’ASL di Salerno perché contraria alla legge. Le malelingue sostengono che celata dietro questa battaglia di legalità del parlamentare napoletano vi è invece, un’operazione elettoralistica volta a raccogliere il consenso degli elettori dell’ASL Napoli 1 che, considerato non il dissesto, ma il disastro finanziario in cui versa, non avrebbero potuto fruire dello stesso beneficio. Ragion per cui niente a Napoli – pur non dovendoglielo – niente a nessuno. Siamo di nuovo al NAPOLICENTRISMO O SIAMO AL SALERNODECENTRISMO ? Può essere verosimile che la litigiosità tra i due contendenti – De Luca / Cirielli – abbia prodotto un difetto di rappresentanza regionale al punto che troppo intenti a litigare, i due, non si sono accorti che da Napoli hanno come suol dirsi “ Fatto fessi i lavoratori dell’ASL di Salerno”, almeno politicamente. Ed allora ricordiamo ai due politici salernitani quello diceva il sergente di primo mattino passando in camerata : “ SBEGLIA, SBEGLIA …” .

martedì 1 febbraio 2011

1861-70, la prima "guerra civile" dell'Italia unita. E se si metesse un cartellone che rappresenti una verità ancora oggi nascosta sui ribelli.
Un invito al nostro Sindaco alla lettura di questo libro. Poi se vuole : pensiero ed azione. Altro che banditi incivili, incolti, reazionari e codini: i briganti che s'opposero alle truppe savoiarde erano ribelli, contadini esasperati dall'avidità e dallo sfruttamento dei latifondisti, cittadini delusi da un Risorgimento che stava tradendo i suoi propositi e ribaltarsi in propaganda. E quella che venne combattuta tra 1861 e 1870 fu la prima guerra civile italiana. Parola di Giordano Bruno Guerri che celebra con la disorientante onestà di sempre i 150 anni dell'Unità d'Italia pubblicando Il sangue del Sud. Antistoria del Risorgimento e del brigantaggio (Mondadori, pp. 300, € 20,00), una lettura penetrante e lucida delle vicende post-unitarie, vicende fondanti per determinare incomprensioni, ostilità e inimicizie tra le due metà della nazione. La repressione del "brigantaggio" fu una guerra civile, insabbiata nei libri di scuola non un cenno alla grande alleanza politica tra le classi dominanti del Nord e i latifondisti del Sud, a tutto danno delle classi subalterne». I briganti andrebbero insomma chiamati con un altro nome nei libri di storia: "ribelli". Celebrare a dovere i 150 anni dell'Unità d'Italia potrebbe significare impegnarsi a «rintracciare i documenti mancanti, forse ancora nascosti e dimenticati». Perché senza memoria e senza giustizia un popolo cresce sghembo. E non impara a rispettarsi. Serve, secondo il maestro Guerri, una «profonda opera di revisione storiografica». Perché s'è trattato d'una guerra civile: e perché a raccontarla, come sempre, è stato il vincitore. Un vincitore che ha imposto la damnatio memoriae sui vinti, riducendo i suoi massacri alla stregua di semplici operazioni di polizia. L'Unità d'Italia per come purtroppo si realizzò non seppe integrare tradizioni, culture e lingue diverse: Guerri sostiene che l'educazione all'italianità dei meridionali sia passata per una contrapposizione rancorosa. "Noi", portatori di giustizia civiltà e legalità, contro "loro", i briganti. A dividere le parti, spiega lo storico senese, «una diversità radicale e radicata, non un'inconciliabilità momentanea. Qualcosa di molto simile a un'estraneità». Che significava la parola "brigante"? Guerri insegna che a introdurla furono i francesi: nel 1829 i nostri linguisti la consideravano ancora un neologismo. Prima ci si serviva di parole come "bandito" o "fuorbandito". Secondo lo storico senese, oggi chiameremmo i briganti "terroristi" oppure, aggiungiamo noi, "guerriglieri". La ribellione di quanti non intendevano accettare l'Italia monarchica venne battezzata, insomma, con un francesismo d'accatto: "brigantaggio". Adottato come sinonimo di "banditismo". Chi era, allora, il "brigante"? Tante erano le anime dei briganti. Erano ex combattenti, erano lavoratori esausti, erano cittadini che rifiutavano gli anni imposti dalla leva militare obbligatoria di stampo giacobino del nuovo Stato, e c'erano - va detto - anche nostalgici borbonici. Erano a volte disertori, a volte delinquenti, a volte romantici. «Terra, giustizia, onore, tradizione, orgoglio, cacciata dello straniero: erano questi i concetti che invitavano i briganti alla battaglia», insegna Guerri.. Non mancavano le donne: secondo Guerri, si trattava di «antesignane di un femminismo istintivo e rabbioso, ribelli stanche di essere confinate, da sempre, al letto, al focolare e ai figli. Un esercito di nomi e di storie senza volto, un'escrescenza della storia, per decenni considerata ingiustamente marginale». Quanti erano i briganti? Erano parecchi. Guerri riferisce che nel 1861 agivano, dall'Abruzzo in giù, 216 bande. I briganti «immaginiamoli magrissimi, di statura bassa, membra grosse, capelli ruvidi e irti, denti guasti, scuri, mancanti. Mani come pale, grosse di calli, dita non fusellate, corte, unghie nere. I pidocchi fanno parte della vita quotidiana, come l'aria». E Guerri parla dei contadini, non di quelli che sono andati alla macchia. In quel frangente le cose peggiorano con una certa facilità. Questa guerra venne combattuta con una legge, la Legge Pica dell'agosto 1863, con cui il governo italiano «impose lo stato d'assedio, annullò le garanzie costituzionali, trasferì il potere ai tribunali militari, adottò la norma della fucilazione e dei lavori forzati, organizzò squadre di volontari che agivano senza controllo, chiuse gli occhi su arbitrii, abusi, crimini, massacri». Caddero, secondo le cifre che Guerri considera più attendibili, addirittura attorno alle 100mila persone tra i meridionali, complici i caduti per stenti, prigionia, disperazione, suicidio. Morale della favola? «Oggi, non si può più tacere che quella conquista comportò episodi da sterminio di massa». Non mancarono episodi di violenza cieca e gratuita per mano sabauda, come i massacri di Pontelandolfo e Casalduni, completi di saccheggio e stupri: nascevano per rappresaglia, costituirono un focolaio d'odio. E in entrambi i casi non ci fu nessun processo. E qualcuno voleva non ci fosse nemmeno memoria. Economicamente, il Regno delle Due Sicilie era decisamente più ricco del Regno del Piemonte, almeno per quanto riguardava le riserve auree. Gli abitanti erano gli stessi, nel 1860: nove milioni. Per i primi trent'anni, l'Italia del Sud fu ben sfruttata dal Piemonte, da questo punto di vista. D'altra parte, nelle terre borboniche non esistevano strade, se non in 227 comuni su 1848, e i chilometri di ferrovie erano decisamente pochi. Eppure, ad esempio, «un'infinità di progetti e decreti stabilivano la costruzione di nuove strade; quasi tutti rimasero impigliati nei lacci della burocrazia e nei contrasti tra comuni, signori, preti e quanti, tra vassalli e valvassori, si arrogassero il diritto di avere voce in ogni decisione. Il morbo è arrivato fino a noi». Guerri ricorda che la base dell'economia meridionale restava l'agricoltura, fondata ancora sul latifondo ma i piemontesi non seppero - o non vollero - risolvere il nodo della questione agraria, determinando così una delle principali cause del brigantaggio: lo scontento abnorme dei contadini. Che sognavano, naturalmente, una equa redistribuzione dei grandi possedimenti terrieri. Tutti si ricordano la frase di d'Azeglio: «Si è fatta l'Italia, ma non si fanno gli italiani». Guerri puntualizza che diversi tra i principali padri della patria, come Gioberti, Rosmini, e Cavour, pensavano comunque a un Regno d'Italia ben diverso, limitato a Piemonte, Lombardia, Veneto e ducati emiliani. «In pratica quella che oggi viene chiamata Padania», chiosa lo storico, ribadendo che si trattava delle regioni più piemontesi o "piemontesizzabili". L'errore di piemontesizzare il Sud ha determinato un secolo e mezzo di incomprensioni, risentimenti, invidie, vittimismi e gelosie. Probabilmente, peraltro, ha originato un'ondata di emigrazione di straordinaria intensità, prima verso altri continenti, poi verso il settentrione. E negli ultimi dodici anni le cose non sono state così diverse, nonostante si sia fatto tutto il possibile per nasconderlo, complice la propaganda berlusconiana. Settecentomila cittadini del Sud hanno dovuto abbandondare casa, famiglia e tessuto sociale per andare in cerca di fortuna a settentrione. Laddove c'è qualcuno che sembra trattarli come creature antropologicamente differenti: e non da ieri, da sempre, ovvero da quando chiamava "brigantaggio" la loro ribellione.